Ferruccio Brugnaro

Ferruccio Brugnaro

Hanno scritto di lui

La sua scrittura nasce dall’urgenza di partecipare con voce forte, chiara, identificabile, direttamente percepibile ed incidere sul concreto, sui fatti, sull’immediatezza dei fatti.
È una poesia in presa diretta: non lascia il tempo a mercanteggiamenti, né lascia il tempo perché situazioni drammatiche e dolorose vengano assopite dalla narcosi della mediocrità, per non dire dell’approssimazione e della superficialità che caratterizzano la maggior parte della comunicazione attuale. (Giovanni Trimeri, “Zeta”, 2007).

Brugnaro ha superato i confini nazionali: oltre a numerose liriche apparse in riviste internazionali (tradotte in francese, tedesco, spagnolo, inglese), libri e volumi antologici sono stati pubblicati negli Stati Uniti, in Francia, in Spagna. Brugnaro ama la poesia e la politica, o meglio, il gran valore della giustizia; praticamente la poesia è nata assieme a quest’impegno [...] Il suo dettato è personale e coinvolgente. La sua voce, sincera ed immediata, sgorga da un bisogno interiore ed è priva di acceso lirismo. (Laura Pierdicchi, 2006).

Ferruccio Brugnaro è un outsider, e come tale piuttosto estraneo ai circuiti ufficiali della poesia, anche se abbastanza conosciuto. Operaio e autodidatta, così lo descrive Jack Hirschman [...]: “Assai noto sia come poeta sia come attivista, ha appreso la sua arte non dai libri ma attraverso la sua quotidiana fatica di lavoratore in una fabbrica per più di trent’anni.”
Caso del tutto anomalo quindi nel nostro panorama letterario, e un’immagine che a prima vista ci riporta agli anni Cinquanta, ai tempi del realismo sociale e delle lotte operaie. (Donatella Bisutti, “Poesia”, 2006).

Le notizie su Brugnaro – figura storica della poesia operaia in Italia, ma prima ancora lavoratore e delegato sindacale al famigerato Petrolchimico di Marghera, e ora da poco in pensione – ci dicono anche che alcuni decenni addietro sia Ungaretti che Zanzotto (il secondo, se ben ricordo, firmando la prefazione ad un suo libro) manifestarono attenzione alla sua scrittura: scrittura primaria di lotta, lessico rude e sbrigativo, strutture metalliche di parole d’urto, violente contestazioni ritmiche e sillabiche da bacheche, da muri, da piazze.
L’Italia che scrive versi, per bocca di due tra i suoi autori più alti e ardui, rompeva il silenzio, dimostrando almeno il merito di non voler rimuovere il caso Brugnaro. (Giorgio Luzzi, “Giornale del popolo”, Lugano, 1998).

[...] Ferruccio Brugnaro non ha bisogno di essere catalogato, e relegato in una visione ideologica della poesia. Anzi, ha semmai bisogno di prendere sempre più coscienza di sé e dei suoi mezzi, e di affinare il suo modo di stare nel mondo e “rapportarsi al reale”. (Franco Loi, “Il Sole 24 ore”, 1993).

Esiste un “caso” Brugnaro? Forse sì, ma certo sarebbe meglio che non esistesse – sarebbe meglio, cioè, che riuscissimo a leggere i testi di questo operaio con l’attenzione specifica che meritano, senza lasciarci forviare o distrarre da ciò che sappiamo, o crediamo di sapere, sul conto del loro autore e badando, invece, a ciò che essi stessi ci dicono sulla situazione sua e dei suoi compagni di lotta.
Sarebbe, oltretutto, un modo per cominciare a capire che la comunicazione letteraria è (o dev’essere) di tutti prima, e più, di quanto non sia (o debba essere) per tutti; in altre parole che se vi è un modo per politicizzare e gestire politicamente la letteratura, esso non consiste tanto nel far leggere quanto, appunto nello scrivere. (Giovanni Raboni, “Tuttolibri”, 1976).

Nella poesia di Brugnaro appare una realtà ambientale che ha raccapriccianti affinità con quella della guerra: è la realtà della fabbrica, o almeno di certe fabbriche, oggi. Non è esagerazione affermarlo. Ci sono in questi versi le mattine di livido inferno dopo i turni, i fumi e rumori che disintegrano, le morti a stillicidio, l’indefinibile e inarrestabile trasformazione degli uomini in cosa.
Si ha quindi, in termini attuali, un’esperienza analoga a quella di Ungaretti nelle trincee del Carso, radicalizzata ora per una mancanza di “eccezionalità”, per un sovrappiù di banale che la permea, per il vago senso del suo non aver mai fine, per il suo cogliere la degradazione, peggio che “a pietra” a materiale plastico-chimico. (Andrea Zanzotto, “Il Giorno”, 1973).

La poesia di Ferruccio Brugnaro è quanto la parola, filtrata attraverso un’ansia infinita di silenzio, lungo una ricerca di pienezza umana, ha saputo esprimere di autentico della classe operaia. Una poesia consapevole degli spazi che affronta, della tematica spirituale che riversa; consapevole del proprio certo, originale sviluppo [...]. (Enzo Manderino, “L’Avanti!”, 1972).

Brugnaro esprime molto bene l’angoscia dell’operaio che non sa dire completamente agli altri quello che i suoi occhi toccano sulle “strade di ferro e di monomeri”, quello che ha provato, quello che gli è mancato. È il desiderio di stare nella vita e di non tacere più, a costo di gridare per sempre, di dare un “morso costante” al mondo.
Un desiderio, al fondo, di essere conosciuti e capiti che si traduce, in certi momenti, in odio per la fabbrica, per i cicli di produzione, per gli orari esatti [...]. (Ivo Prandin, “Il Gazzettino”, 1971).