Un sillabario in ghetto: l'educazione prescolare ed elementare nel ghetto di Venezia nei secoli XVII e XVIII di Umberto Fortis

Il mondo ebraico ha sempre posto molta attenzione all’istruzione dei giovani. Fin dai tempi più antichi, infatti, è indicato, nei testi, il percorso educativo scolastico che ogni ebreo dovrebbe seguire. Le Massime dei padri (Pirqé ’Avòth, V, 23), ad esempio, indicano che a cinque anni si studi la Bibbia, a dieci la Mishnà (il codice normativo), a quindici il Talmùd (i commenti alla Mishnà). Nelle varie comunità ebraiche italiane erano istituiti perciò corsi quadriennali, nei quali gli studenti apprendevano la Bibbia e i relativi commenti (corso preparatorio); i codici della normativa ebraica (corso primario); i commenti dei maestri, le scienze e le discipline superiori (corso secondario): la preparazione conseguita dava la possibilità di accedere, in seguito, agli studi specialistici nella Yeshivà (accademia rabbinica), fino al raggiungimento del titolo rabbinico.
Mentre però conosciamo bene il tradizionale curriculum scolastico, poco sappiamo della preparazione prescolastica, fino ai quattro o cinque anni. Sono scarse le indicazioni che provengono da testi ebraici e sono, per la maggior parte, molto generiche. Al contrario, notizie dettagliate sono fornite dalle relazioni di alcuni ebrei convertiti, come Giulio Morosini o Paolo Medici, che descrivono la loro educazione infantile, spesso per darne una valutazione fortemente negativa o per irridere alcune scelte tradizionali. Essi però fanno riferimento all’uso di alcune tavolette, stampate su carta o su tela, che riproducono versi biblici, benedizioni o salmi e che venivano usate nelle aule scolastiche - a Venezia i mezà putti – per far apprendere a memoria ai bambini alcuni principi fondamentali dell’ebraismo. Sono appunto questi “sillabari” che offrono le maggiori indicazioni sulla qualità dell’istruzione prescolare seguita nei ghetti. La tavoletta posseduta dalla Biblioteca Marciana è proprio uno dei documenti più antichi di questo genere di “testi scolastici” d’un tempo.
Datata 1672, la tavoletta riproduce, al centro, le consonanti dell’alfabeto ebraico, con le relative vocali sottoscritte, mentre ai lati e sotto la figura centrale appaiono alcuni brani della Bibbia, benedizioni o salmi che i piccoli scolari dovevano imparare a memoria. Un primo gruppo di testi riporta lo Shemà‘ Israèl (Ascolta Israele), preghiera fondamentale dell’ebraismo (Deut., VI, 4-9), la formula di santificazione del nome di D-o, secondo Isaia, VI, 3, e lo Shemà‘ benì (Ascolta, figlio mio) sul rispetto che i figli devono ai genitori. Un secondo gruppo riproduce le tipiche benedizioni per i figli, tra le quali la benedizione di Giacobbe morente (Gen., XLVIII, 16), conosciuta anche come “benedizione dell’angelo”. Un terzo gruppo ripropone le benedizioni quotidiane, tra le quali quella dopo il pasto, in versione ridotta per i bambini. Infine, sotto la figura centrale, sono stampati alcuni salmi di carattere protettivo, quali il salmo XC, il XCI, il XXIII e il LXVII.
L’impaginazione complessiva e la scelta dei testi sono simili a quelle di tante altre tavolette, diffuse nelle comunità italiane almeno fino alla prima metà dell’Ottocento. Quello che invece distingue la tavoletta marciana dalle altre è l’immagine riprodotta al centro. Tutti gli altri esemplari conosciuti, infatti, presentano la scena di una scuola, con l’angelo che protegge i piccoli scolari; nel “sillabario” veneziano appare invece un disegno di difficile interpretazione, oltre che di incerta lettura, a causa della scadente qualità della stampa. Da un lato, la cornice presenta figure poco adatte a un utente infantile, dall’altro, il ritratto dell’uomo che fugge spaventato da un indecifrabile viluppo non sembra trovare un preciso riscontro in alcun episodio biblico, né avere alcuna affinità con i testi che lo circondano. L’ipotesi più probabile, perciò, allo stato attuale delle nostre conoscenze, è che la tavoletta sia semplicemente una bozza, una prova di stampa preparatoria, nella quale la stamperia, bragadina o vendramina (non esistono indicazioni nel testo) ha messo provvisoriamente una figura qualsiasi, tra quelle a disposizione. Una riprova di tale ipotesi può trovarsi nel fatto che il testo ebraico presenta alcuni refusi, che sarebbero poi stati corretti nella stampa definitiva. E, tuttavia, questa particolarità non sembra limitare affatto l’importanza del documento storico marciano, che, in mancanza di più ampie attestazioni, consente comunque una visione diretta di quanto veniva insegnato ai più piccoli discenti delle comunità ebraiche italiane nei secoli passati.

Umberto Fortis, studioso di ebraismo

Bibliografia di riferimento:
Leone Modena, Historia de riti hebraici, Venezia, Calleoni, 1638.
Giulio Morosini, Via della fede, Roma, Prop. Fide, 1683.
Paolo Medici, Riti e costumi degli ebrei confutati, Venezia, Bortoli, 1742.                                                                                                                                 
Attilio Milano, Storia degli ebrei in Italia, Torino, Einaudi, 1963.
Attilio Milano, Il ghetto di Roma, Roma, Carucci, 1988.
Roberto Bonfil, Gli ebrei in Italia nell’epoca del Rinascimento, Firenze, Sansoni, 1991.